Alla corte dei Sovrani
*Festa al castello
Il villaggio ai piedi del castello fu svegliato dalla voce dell’araldo del castellano che leggeva un proclama nella piazza. “Il nostro signore beneamato invita tutti i suoi buoni e fedeli sudditi a partecipare alla festa del suo compleanno. Ognuno riceverà una piacevole sorpresa.
Domanda a tutti però un piccolo favore: chi partecipa alla festa abbia la gentilezza di portare un po’ d’acqua per riempire la riserva del castello che è vuota…”. L’araldo ripeté più volte il proclama, poi fece dietrofront e scortato dalle guardie ritornò al castello. Nel villaggio scoppiarono i commenti più diversi. “Bah! Ě il solito tiranno! Ha abbastanza servitori per farsi riempire il serbatoio…
Io porterò un bicchiere d’acqua, e sarà abbastanza!”. “Ma no! Ě sempre stato buono e generoso! Io ne porterò un barile!”. “Io un … ditale!”. “Io una botte!”. Il mattino della festa, si vide uno strano corteo salire al castello. Alcuni spingevano con tutte le loro forze dei grossi barili o ansimavano portando grossi secchi colmi d’acqua. Altri, sbeffeggiando i compagni di strada, portavano piccole caraffe o un bicchiere su un vassoio. La processione entrò nel cortile del castello.
Ognuno vuotava il proprio recipiente nella grande vasca, lo posava in un angolo e poi si avviava pieno di gioia verso la sala del banchetto. Arrosti e vino, danze e canti si succedettero, finché verso sera il signore del castello ringraziò tutti con parole gentili e si ritirò nei suoi appartamenti. “E la sorpresa promessa?”, brontolarono alcuni con disappunto e delusione. Altri dimostravano una gioia soddisfatta: “Il nostro signore ci ha regalato la più magnifica delle feste!”. Ciascuno, prima di ripartire, passò a riprendersi il recipiente. Esplosero allora delle grida che si intensificarono rapidamente. Esclamazioni di gioia e di rabbia. I recipienti erano stati riempiti fino all’orlo di monete d’oro! “Ah! Se avessi portato più acqua…”.
“Date agli altri e Dio darà a voi: riceverete da lui una misura buona, pigiata, scossa e traboccante. Dio infatti tratterà voi allo stesso modo con il quale voi avrete trattato gli altri”. (Luca 6,38).
C'era una volta un sovrano potente. Sapeva che il numero dei giorni che gli restavano da vivere diminuiva inesorabilmente. Che cosa sarebbe diventato il suo stupendo impero, quando sarebbe stato costretto ad abbandonarlo con tutti i nemici che lo circondavano da ogni lato? Che avrebbe potuto fare il giovane principe, quel figlio troppo giovane e inesperto che il sovrano aveva avuto, ahimè, in tarda età? Dove poteva rifugiarsi? Chi lo avrebbe protetto? Questi pensieri tormentavano il vecchio re, tanto che un giorno disse al principe: «Figlio mio, io non regnerò più per molto tempo e ignoro ciò che accadrà dopo la mia morte. Ci sono molti nemici intorno al trono. Ho tanta paura per l'impero che ho costruito e anche per te. Morirei tranquillo se sapessi che hai un rifugio sicuro che ti protegga in caso di pericolo. Per questo ti consiglio di andare per il regno e di costruire fortezze in tutti gli angoli possibili, per tutti i confini del paese». Obbediente, il giovane si mise immediatamente in cammino. Percorse tutto il Paese, per monti e per valli, e dove trovava il posto conveniente, faceva costruire grandi fortezze solide e imponenti.
Le fortezze sorsero nelle profondità delle foreste, nelle valli più nascoste, sulla sommità delle colline, nei deserti, in riva ai fiumi e sui fianchi delle montagne. Questo costò molto denaro, ma il principe non badava a spese: erano in gioco la sua vita e il suo trono.
Dopo un certo tempo, il giovane ritornò nel palazzo del re suo padre. Stanco, dimagrito, ma soddisfatto d'aver portato a termine il compito, corse a presentarsi dal padre.
«Ebbene, figlio mio, com'è andata? Hai fatto ciò che io ti avevo detto?" gli domandò il re.
«Sì, padre», rispose il principe. «In tutto il paese si innalzano fortezze imprendibili: nei deserti, sulle montagne, nel profondo delle foreste». Ma il vecchio re, il più potente che la storia abbia mai conosciuto, invece di congratularsi con il figlio per tutti i suoi sforzi, scuoteva la testa come in preda ad un forte dispiacere.
«Non è questo, figlio mio, che avevo in mente io. Devi tornare indietro e ricominciare», disse. «Le fortezze che tu hai costruito non ti proteggeranno assolutamente in caso di pericolo: tu sarai solo e non per quei muri e quelle pietre potrai sfuggire alle imboscate e alle trappole dei tuoi nemici. Tu devi costruirti dei rifugi nel cuore delle persone oneste e buone. Devi cercare queste persone, e guadagnarti la loro amicizia: soltanto allora saprai dove rifugiarti nei momenti difficili. Là dove un uomo ha un amico sincero, là trova un tetto sotto cui ripararsi».
Il principe si rimise in cammino. Non più per i deserti, i dirupi, le foreste selvagge, ma per andare verso la gente, tra loro, per costruire dei rifugi come immaginava suo padre, il vecchio re pieno di saggezza. E questo richiese molti più sforzi e fatiche. Ma il principe non li rimpianse mai. Perché, quando dopo un certo tempo il vecchio sovrano si spense e lasciò questo mondo, il principe non aveva più nessun nemico da temere.
Un giorno, una giovane donna ricevette una dozzina di rose con un biglietto che diceva: "Una persona che ti vuole bene", senza però la firma.
Non essendo sposata, il suo pensiero andò agli uomini della sua vita: vecchie fiamme, nuove conoscenze. Oppure erano stati la mamma e il papà? Qualche collega di lavoro? Fece un rapido elenco mentale. Infine telefonò a un'amica perché l'aiutasse a scoprire il mistero.
Una frase dell'amica le fece all'improvviso balenare un'idea.
"Di', sei stata tu a mandarmi i fiori?".
"Sì".
"Perché?".
"Perché l'ultima volta che ci siamo parlate eri di umore nero. Volevo che trascorressi un giorno pensando a tutte le persone che ti vogliono bene".
E tu, quante fortezze hai costruito oggi?
C'era una volta un cavaliere che aveva valorosamente combattuto in tutti gli angoli del Regno. Finché un giorno, durante una scaramuccia, un colpo di balestra gli aveva trapassato una gamba e quasi messo fine ai suoi giorni. Mentre giaceva ferito, il cavaliere aveva intravisto il paradiso, ma molto lontano e fuori della sua portata. Mentre l'inferno con la gola spalancata e infuocata era vicino vicino. Aveva da tempo, infatti, calpestato tutte le promesse e le regole della cavalleria e si era trasformato in un soldataccio impenitente, che ammazzava senza rimorsi il suo prossimo, razziava e commetteva ogni sorta di violenze. Pieno di spavento salutare, gettò elmo, spada e armatura e si diresse a piedi verso la caverna di un santo eremita. "Padre mio, vorrei ricevere il perdono delle mie colpe, perché nutro una gran paura per la salvezza dell'anima mia. Farò qualunque penitenza. Non ho paura di niente, io!". "Bene, figliolo", rispose l'eremita. "Fa' soltanto una cosa: vammi a riempire d'acqua questo barilotto e poi riportamelo". "Uff! É una penitenza da bambini o da donnette!", sbraitò il cavaliere agitando un pugno minaccioso. Ma la visione del diavolo sghignazzante lo ammorbidì subito.
Prese il barilotto sotto braccio e, brontolando, si diresse al fiume. Immerse il barilotto nell'acqua, ma quello rifiutò di riempirsi. "É un sortilegio magico", ruggì il penitente. "Ma ora vedremo". Si diresse verso una sorgente: il barilotto rimase ostinatamente vuoto. Furibondo, si precipitò al pozzo del villaggio. Fatica sprecata! Un anno dopo, il vecchio eremita vide arrivare un povero straccione dai piedi sanguinanti e con un barilotto vuoto sotto il braccio.
"Padre mio", disse il cavaliere (era proprio lui) con voce bassa e addolorata, "ho girato tutti i fiumi e le fonti del Regno. Non ho potuto riempire il barilotto... Ora so che i miei peccati non saranno perdonati. Sarò dannato per l'eternità! Ah, i miei peccati, i miei peccati così pesanti... Troppo tardi mi sono pentito". Le lacrime scorrevano sul suo volto scavato. Una lacrima piccola piccola scivolando sulla folta barba finì nel barilotto. Di colpo il barilotto si riempì fino all'orlo dell'acqua più pura, fresca e buona che mai si fosse vista.
Tempo fa, in una terra lontana, viveva un signore potente e famoso in ogni angolo del regno.
Sull'orlo di una nera scogliera aveva fatto costruire una roccaforte così solida e ben armata, da non temere né re, né conti, né duchi, né principi, né visconti.
E questo possente signore aveva un bell'aspetto, nobile e imponente.
Ma nel suo cuore era sleale, astuto e ipocrita, superbo e crudele.
Non aveva paura né di Dio né degli uomini.
Sorvegliava come un falco i sentieri e le strade che passavano nella regione e piombava sui pellegrini e mercanti per rapinarli.
Aveva da tempo calpestato tutte le promesse e le regole della cavalleria.
La sua crudeltà era divenuta proverbiale.
Disprezzava apertamente la gente e le leggi della Chiesa.
Ogni Venerdì santo invece di digiunare e rinunciare a mangiare carne organizzava grandi festini e lauti banchetti per i suoi cavalieri.
Si divertiva a tiranneggiare vassalli e servitù.
Ma un giorno, durante un combattimento, un colpo di balestra lo ferì gravemente ad un fianco.
Per la prima volta, il crudele signore provò la sofferenza e la paura.
Mentre giaceva ferito, i suoi cavalieri gli fecero balenare davanti agli occhi la gola spalancata e infuocata dell'inferno a cui era sicuramente destinato se non si fosse pentito dei suoi peccati e confessato in chiesa.
"Pentirmi io? Mai! Non confesserò neppure un peccato!".
Tuttavia il pensiero dell'inferno gli provocò un po' di spavento salutare.
A malincuore gettò elmo, spada e armatura e si diresse a piedi verso la caverna di un santo eremita.
Con tono sprezzante, senza neppure inginocchiarsi, raccontò al santo frate tutti i suoi peccati: uno dietro l'altro, senza dimenticarne neppure uno.
Il povero eremita si mostrò ancora più afflitto:
"Sire, certamente hai detto tutto, ma non sei pentito. Dovresti almeno fare un po' di penitenza, per dimostrare che vuoi davvero cambiare vita".
"Farò qualunque penitenza. Non ho paura di niente, io! Purché sia finita questa storia".
"Digiunerai ogni Venerdì per sette anni...!".
"Ah, no! Questo puoi scordartelo!".
"Vai in pellegrinaggio fino a Roma...".
"Neanche per sogno!".
"Vestiti di sacco per un mese...".
"Mai!".
Il superbo cavaliere respinse tutte le proposte del buon frate, che alla fine propose: "Bene, figliolo. Fa' soltanto una cosa: vammi a riempire d'acqua questo barilotto e poi riportamelo".
"Scherzi? É una penitenza da bambini o da donnette!". Sbraitò il cavaliere agitando il pugno minaccioso.
Ma la visione del diavolo sghignazzante lo ammorbidì subito. Prese il barilotto sotto braccio e brontolando si diresse al fiume.
Immerse il barilotto nell'acqua, ma quello rifiutò di riempirsi.
"É un sortilegio magico", ruggì il penitente, "ma ora vedremo".
Si diresse verso una sorgente: il barilotto rimase ostinatamente vuoto.
Furibondo, si precipitò al pozzo del villaggio.
Fatica sprecata!
Provò ad esplorare l'interno del barilotto con un bastone: era assolutamente vuoto.
"Cercherò tutte le acque del mondo", sbraitò il cavaliere. "Ma riporterò questo barilotto pieno!".
Si mise in viaggio, così com'era, pieno di rabbia e di rancore.
Prese ad errare sotto la pioggia e in mezzo alle bufere.
Ad ogni sorgente, pozza d'acqua, lago o fiume immergeva il suo barilotto e provava e riprovava, ma non riusciva a fare entrare una sola goccia d'acqua.
Anni dopo, il vecchio eremita vide arrivare un povero straccione dai piedi sanguinanti e con un barilotto vuoto sotto il braccio.
Le lacrime scorrevano sul suo volto scavato.
Una lacrima piccola piccola scivolando sulla folta barba finì nel barilotto.
Di colpo il barilotto si riempì fino all'orlo dell'acqua più pura, più fresca e buona che mai si fosse vista.
Una sola piccola lacrima di pentimento...
L'esperienza nascosta nel racconto:
Il cavaliere del racconto scopre, con fatica e sofferenza personale, la radice del vero pentimento essenziale per ottenere il perdono di Dio e la pace vera dell'anima.
Un re aveva al suo servizio un buffone di corte che gli riempiva le giornate di battute e scherzi.
Un giorno, il re affidò al buffone il suo scettro dicendogli: "Tienilo tu, finché non troverai qualcuno più stupido di te: allora potrai regalarlo a lui".
Qualche anno dopo, il re si ammalò gravemente. Sentendo avvicinarsi la morte, chiamò il buffone, a cui in fondo si era affezionato, e gli disse: "Parto per un lungo viaggio". "Quando tornerai? Fra un mese? ". "No", rispose il re, "non tornerò mai più".
"E quali preparativi hai fatto per questa spedizione?", chiese il buffone. "Nessuno!", fu la triste risposta.
"Tu parti per sempre", disse il buffone, "e non ti sei preparato per niente? To', prendi lo scettro: ho trovato uno più stupido di me!".
Sono tanti quelli che non si preparano alla grande partenza. Per questo quel momento si riveste di penosa angoscia.
"State svegli dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora", dice Gesù (Vangelo di Matteo 25,13).
C'era una volta un re molto triste che aveva un servo molto felice che circolava sempre con un grande sorriso sul volto. «Paggio», gli chiese un giorno il re, «qual è il segreto della tua allegria?».
«Non ho nessun segreto. Signore, non ho motivo di essere triste. Sono felice di servirvi. Con mia moglie e i miei figli vivo nella casa che ci è stata assegnata dalla corte. Ho cibo e vestiti e qualche moneta di mancia ogni tanto».
Il re chiamò il più saggio dei suoi consiglieri: «Voglio il segreto della felicità del paggio!».
«Non puoi capire il segreto della sua felicità. Ma se vuoi, puoi sottrargliela».
«Come?».
«Facendo entrare il tuo paggio nel giro del novantanove».
«Che cosa significa?».
«Fa' quello che ti dico...».
Seguendo le indicazioni del consigliere, il re preparò una borsa che conteneva novantanove monete d'oro e la fece dare al paggio con un messaggio che diceva: «Questo tesoro è tuo. Goditelo e non dire a nessuno come lo hai trovato».
Il paggio non aveva mai visto tanto denaro e pieno di eccitazione cominciò a contarle: dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta...
novantanove! Deluso, indugiò con lo sguardo sopra il tavolo, alla ricerca della moneta mancante. «Sono stato derubato!» gridò. «Sono stato derubato! Maledetti!».
Cercò di nuovo sopra il tavolo, per terra, nella borsa, tra i vestiti, nelle tasche, sotto i mobili... Ma non trovò quello che cercava.
Sopra il tavolo, quasi a prendersi gioco di lui, un mucchietto di monete splendenti gli ricordava che aveva novantanove monete d'oro. Soltanto novantanove. «Novantanove monete. Sono tanti soldi», pensò. «Ma mi manca una moneta. Novantanove non è un numero completo» pensava. «Cento è un numero completo, novantanove no».
La faccia del paggio non era più la stessa. Aveva la fonte corrugata e i lineamenti irrigiditi. Stringeva gli occhi e la bocca gli si contraeva in una orribile smorfia, mostrando i denti.
Calcolò quanto tempo avrebbe dovuto lavorare per guadagnare la centesima moneta, avrebbe fatto lavorare sua moglie e i suoi figli. Dieci dodici anni, ma ce l'avrebbe fatta! Il paggio era entrato nel giro del novantanove...
Non passò molto tempo che il re lo licenziò. Non era piacevole avere un paggio sempre di cattivo umore.
E se ci rendessimo conto, così di colpo, che le nostre novantanove monete sono il cento per cento del tesoro. E che non ci manca nulla, nessuno ci ha portato via nulla, il numero cento non è più rotondo del novantanove. È soltanto un tranello, una carota che ci hanno messo davanti al naso per renderci stupidi, per farci tirare il carretto, stanchi, di malumore, infelici e rassegnati. Un tranello per non farci mai smettere di spingere.
Quante cose cambierebbero se potessimo goderci i nostri tesori così come sono.
Lontano, lontano da qui, in un mare dal nome strano, c'era una piccola isola, con le spiagge bianche e le colline verdi. Sull'isola c'era un castello e nel castello viveva un piccolo re. Era un re abbastanza strano, perché non aveva sudditi. Nemmeno uno.
Ogni mattina il piccolo re, dopo aver sbadigliato ed essersi stiracchiato, si lavava le orecchie e si spazzolava i denti; poi si calcava in testa la corona e cominciava la sua giornata. Se splendeva il sole, il piccolo re correva sulla spiaggia a fare sport. Era un grande sportivo. Deteneva infatti tutti i record del regno: da quello dei cento metri di corsa sulla sabbia, al lancio della pietra, a tutte le specialità di nuoto, eccetto lo sci acquatico, perché non trovava nessuno che guidasse il reale motoscafo. E dopo ogni gara, il re si premiava con la medaglia d'oro. Ne aveva ormai tre stanze piene.
Ogni volta che si appuntava la medaglia sul petto, si rispondeva con garbo: "Grazie, maestà!".
Nel castello c'era una biblioteca, e gli scaffali erano pieni di libri. Al re piacevano molto i fumetti d'avventure. Un po' meno le fiabe, perché nelle fiabe tutti i re avevano dei sudditi. "E io neanche uno!" si diceva il re. "Ma come dice il proverbio: è meglio essere soli che male accompagnati".
E quando faceva i compiti, si dava sempre dei bellissimi voti. "Con i complimenti di sua maestà", si dichiarava.
Una sera, però, sentì un certo nonsoché che lo rendeva malinconico; camminò fino alla spiaggia, deciso a cercare qualche suddito, e pensava: "Se solo avessi cento sudditi".
Allora proseguì sulla spiaggia verso destra, ma la riva era completamente deserta.
"Se solo avessi cinquanta sudditi", disse il re; tornò indietro e camminò sulla spiaggia verso sinistra fino a che poté, ma la riva era ugualmente deserta. Il re si sedette su uno scoglio ed era un po' triste; e di conseguenza non si accorse nemmeno che quella sera c'era un magnifico tramonto.
"Se solo avessi dieci sudditi, probabilmente sarei più felice".
Notò lontano sul mare alcuni pescatori sulle loro barche e si rallegrò.
"Sudditi", gridò il re; "sudditi, da questa parte, ecco il re, urrà!".
Ma i pescatori non lo sentirono, e tutto quel gridare rese rauco il re. Tornò a casa e scivolò sotto la sua bella trapunta colorata; si addormentò e sognò un milione di sudditi che gridavano "urrà" nel momento in cui lo vedevano.
Non dormì a lungo. Un vociare forte e disordinato lo svegliò. Il piccolo re non aveva sudditi, ma aveva dei nemici accaniti. Erano i pirati del terribile Barbarossa.
Sembravano sbucare dall'orizzonte, con la loro nave irta di cannoni, con i loro baffi spioventi e il ghigno feroce, e i coltellacci fra i denti.
"All'arrembaggio!", gridava Barbarossa, il più feroce di tutti. E i trentotto pirati entravano urlando nel castello e facevano man bassa di tutto quello che trovavano. A forza di scorrerie, nel castello era rimasto ben poco di asportabile, così i pirati avevano preso l'abitudine di riportare qualcosa ogni volta per poterlo rubare nella scorreria successiva.
Il piccolo re aveva una paura tremenda dei pirati e soprattutto del crudele Barbarossa che ogni volta sbraitava: "Se prendo il re, lo appendo all'albero della nave!".
Così, quando sentiva arrivare i pirati, si nascondeva in uno dei tanti nascondigli segreti del castello. Dentro, rannicchiato nel buio, aspettava la partenza dei pirati. Era così da tanto tempo ormai, e il piccolo re non si sentiva affatto un fifone. "Se avessi un esercito", pensava, "Barbarossa e la sua ciurma non la passerebbero liscia".
Un mattino, il re si svegliò a un suono completamente nuovo. Lo ascoltò e si rese conto che non aveva mai udito un suono simile. "Forse sono arrivati i miei sudditi", pensò il re, e andò ad aprire la porta. Sul gradino della porta sedeva un enorme gatto arancione.
"Buongiorno", disse il re con grande dignità; "io sono il re, urrà".
"E io sono il gatto", disse il gatto.
"Tu sei mio suddito", disse il re.
"Lasciami entrare", ribatté il gatto; "ho fame e ho freddo".
Il re lasciò entrare il gatto nella sua casa, e il gatto fece un giro intorno e vide quanto era grande e confortevole.
"Che bellissima casa hai".
"Sì, non è male", disse il re; e improvvisamente si accorse di tutte le cose che non aveva mai visto in molti anni.
"É perché io sono il re", disse il re; ed era molto soddisfatto.
"Io resterò qui", decise il gatto, e si sistemò nella casa per vivere con il re; e il re fu felice perché ora aveva finalmente un suddito.
"Dammi del cibo", disse il gatto, e il re corse via immediatamente per andare a prendere cibo per il gatto.
"Fammi un letto", disse il gatto; e il re corse alla ricerca di una trapunta e di un cuscino.
"Ho freddo", disse il gatto; e il re accese un fuoco affinché il gatto potesse scaldarsi.
"Ecco fatto, signor Suddito", disse il re al gatto.
E il gatto rispose: "Grazie, signor Re".
E il re non notò neppure che, sebbene fosse il re, serviva il gatto.
Il tempo passava e il re era felice in compagnia del gatto, e il gatto mostrava al re ogni cosa che il re nella sua solitudine era riuscito a dimenticare: il tramonto, la rugiada del mattino, le conchiglie colorate e la luna che scivolava attraverso il cielo come la barca dei pescatori sul mare.
Qualche volta accadeva al re di passare davanti a uno specchio, e quando vedeva la sua immagine diceva: "Il re, urrà". E si salutava. Non era più il campione assoluto dell'isola. Il gatto lo batteva nel salto in alto, in lungo e nell'arrampicata sugli alberi; ma il re continuava a eccellere nel nuoto e nel lancio della pietra.
Un mattino, il re sentì bussare alla porta del castello. Corse ad aprire, pensando: "Arrivano i sudditi". Si trovò davanti un piccoletto con la faccia allegra. Era un pinguino, con la camicia bianca e il frac di un bel nero lucente.
"Buongiorno", disse il re con grande dignità; "io sono il re, urrà".
"E io sono un pinguino", disse il pinguino.
"Tu sei mio suddito", disse il re.
"Lasciami entrare", ribatté il pinguino; "ho fame e ho i piedi congelati. Sono stufo di abitare su un iceberg".
Il re lasciò entrare il pinguino nella sua casa e gli presentò il gatto, che fu molto felice di fare conoscenza con il pinguino.
"Penso che mi fermerò qui con voi", disse il pinguino.
Il re ne fu felicissimo. Adesso aveva due sudditi. Corse a preparare una buona cenetta per il pinguino, mentre il gatto portava al nuovo ospite due soffici pantofole.
"Io farò il maggiordomo. Mi ci sento portato", dichiarò il pinguino. "Terrò in ordine il castello e servirò gli aperitivi in terrazza".
Così furono in tre a guardare i tramonti. Ed era ancora meglio che in due. Il re non vinceva più molte gare sportive, perché il pinguino lo batteva a nuoto e nei tuffi. Scoprì, sorprendentemente, che si può essere contenti anche se non si vince sempre.
Ma una sera, lontano all'orizzonte, apparve la nave del pirata Barbarossa.
"Presto scappiamo a nasconderci", gridò il re.
"Neanche per sogno", disse il gatto. "Siamo in tre e possiamo battere quei prepotenti".
"Certo", ribatté il pinguino. "Basta avere un piano".
"Nell'armeria del castello c'è l'armatura del gigante Latus", disse il re.
"Bene", disse il gatto. "Ci infileremo nell'armatura e affronteremo i pirati".
"Il gatto si metterà sulle mie spalle, e il re sul gatto, così potrà brandire la spada", continuò il pinguino.
"Approvo il piano", concluse il re.
Così fecero. Quando approdarono alla spiaggia, i pirati rimasero paralizzati dalla sorpresa. Verso di loro, a grandi passi ondeggianti, avanzava un gigante che brandiva un enorme e minaccioso spadone. "É tornato il gigante Latus!", gridarono. "Si salvi chi può!". E si buttarono in acqua per raggiungere la nave. Da allora nessuno li vide mai più.
Sulla spiaggia dell'isola il piccolo re, il gatto e il pinguino si abbracciarono ridendo. Poi il gatto e il pinguino sollevarono il re e lo gettarono in aria gridando: "Re è il migliore amico che c'è, urrà!".
Simon Pietro gli rispose: "Signore, da chi andremo Tu solo hai parole che danno la vita eterna. E ora noi crediamo e sappiamo che tu sei quello che Dio ha mandato"» (Vangelo di Giovanni 6,66-69).
Il ricco e potente re delle Terre Ombrose aveva tre figli. Li aveva cresciuti nell'orgoglio ed educati alla forza e alla generosità. Ma i tre fratelli erano molto diversi uno dall'altro.
Il primogenito si chiamava Valente. Era dotato di una gagliarda forza fisica e di un carattere risoluto, ma si mostrava a volte altezzoso e arrogante.
Il secondo si chiamava Folco. Era intelligente e acuto, ma spesso avido e senza scrupoli.
Il terzo era poco più che un ragazzo e si chiamava Giannino. Portava lunghi capelli biondi che gli incorniciavano un viso simpatico e lentigginoso in cui brillavano gli occhi color delle castagne mature. Giannino era svelto e furbo, ma doveva guardarsi continuamente dagli scherzi che gli giocavano i fratelli più grandi che non lo stimavano molto.
Il re delle Terre Ombrose era ormai vecchio ed era giunto il momento in cui doveva cercarsi un successore. Ma il buon re non sapeva quale dei tre figli scegliere. Li amava tutti e tre, e per tutta la vita non aveva mai fatto preferenze. Così un giorno li convocò nella sala del trono.
Alla ricerca dello Smeraldo Verde
"Figli miei", disse abbracciandoli con gli occhi. "Uno di voi sarà il mio successore. Ma sento di amarvi tutti allo stesso modo e non riesco a scegliere. Farò così. Salirà sul trono delle Terre Ombrose quello di voi che riuscirà a portarmi lo Smeraldo Verde, custodito nella Grotta Ferrea, nel Paese del Nord".
I tre fratelli rimasero senza fiato. Lo Smeraldo Verde era il sogno di tutti i cavalieri e di tutti i guerrieri delle Terre Ombrose. Ma tutti coloro che erano partiti alla sua ricerca non erano mai tornati. Troppe difficoltà erano disseminate sul percorso.
"So che è un'impresa difficile", proseguì il vecchio re. "Ma so che voi potete riuscirci. Vi lascerò tre doni che vi aiuteranno".
Pronunciando queste parole, il re alzò un panno ricamato che copriva tre oggetti posati su un tavolo. Erano una spada dalla lama lucente, un bel mucchio di monete d'oro e una conchiglia di quelle a torciglione, grossa due volte il pugno di un uomo.
"La mia forza, la mia ricchezza, le mie parole", spiegò il re. "La lama di questa spada non può essere spezzata, chi avrà queste monete d'oro sarà il più ricco della terra e in questa conchiglia ci sono tutte le mie parole, quelle che vi ho detto da quando siete nati ad oggi. Scegliete".
Valente e Folco si scambiarono un'occhiatina e scelsero secondo le loro inclinazioni, senza badare a Giannino. Con mossa rapida Valente afferrò la spada fiammeggiante e Folco il sacco di monete. Giannino prese la conchiglia e se la legò al collo. Poi tutti e tre partirono. Valente sul suo focoso destriero; Folco sulla sua carrozza dorata; Giannino a piedi, ma fischiettando.
Malak il bandito
Il primo ostacolo era la Foresta Tenebrosa, dove regnava il feroce Malak, il bandito. Valente fu il primo ad arrivare. Quando le sentinelle di Malak lo videro gli sbarrarono il passo, ma il giovane principe sguainò la spada e ingaggiò un terribile combattimento.
Folco arrivò poco dopo sulla sua carrozza e si fece condurre da Malak in persona.
"Se mi fai passare ti offro cento monete d'oro", disse al bandito.
"Ne voglio cento e cinquanta", rispose Malak.
"Cento e trenta", ribattè Folco.
"Duecento". "Centoquaranta...".
E la cosa cominciò ad andare per le lunghe.
Giannino arrivò verso sera. Valente stava ancora combattendo e Folco era più che mai avviluppato nelle sue aspre contrattazioni. Il giovane portò la conchiglia all'orecchio. Sentì, chiara e piena di bontà, la voce di suo padre: "Ricordati, figlio mio, che si pigliano più mosche con una goccia di miele che con un barile d'aceto".
Giannino capì. Raccolse lamponi e mirtilli e preparò una bevanda dissetante e profumata. Con un gesto semplice e cordiale la offrì a Malak. Il bandito sanguinario non aveva mai ricevuto un regalo in tutta la sua vita (e per questo era così cattivo). Assaggiò la bevanda, si asciugò i baffi e poi disse a Giannino, con un po' di sospetto:
"Perché lo fai?".
"Perché mi hanno detto che lei è il più coraggioso cavaliere dei dintorni!".
"Sei un ragazzo in gamba. Chiedimi quello che vuoi e te lo darò".
"Mi lasci attraversare la foresta e permetta che passino anche i miei fratelli, potente e generoso cavaliere".
Nessuno aveva mai detto "generoso" a Malak, che quasi si sciolse in lacrime. Così i tre fratelli passarono la Foresta Tenebrosa. Valente e Folco stremati per la gran fatica si buttarono a terra e piombarono in un sonno profondo. Giannino si portò di nuovo la conchiglia all'orecchio.
"Ricordati che le ore del mattino hanno l'oro in bocca", disse la voce del padre.
Era ancora notte e Giannino ripartì. Il secondo ostacolo era il Lago delle Tempeste e quando Giannino arrivò era ancora ghiacciato. Il giovane lo poté così attraversare rapidamente. I suoi due fratelli arrivarono che il sole era alto, il ghiaccio era sciolto e le onde dell'immenso lago ruggivano assassine. Valente e Folco furono costretti a iniziare un giro lunghissimo e disseminato di pericoli per evitare il lago.
Così Giannino giunse per primo al terzo decisivo ostacolo: la terrificante Palude della Tristezza.
La palude della Tristezza
La palude della Tristezza era una sconfinata distesa di fango viscido. Solo chi aveva coraggio, tenacia e una forza di volontà impareggiabile la poteva attraversare. Giannino cominciò risolutamente. Ma le sabbie mobili e le radici delle piante morte sembravano tentacoli che lo attiravano verso il basso. Ogni passo gli costava enorme fatica.
Più tardi arrivarono anche Valente e Folco. Per loro le cose si misero subito male. Il cavallo di Valente affondò e il giovane tentò di proseguire a piedi, ma la spada e l'armatura lo impacciavano. A ogni passo affondava nella fanghiglia fino al naso.
La carrozza di Folco si rovesciò, il sacco dell'oro si aprì e tutte le monete finirono nelle sabbie mobili che le inghiottirono, una dopo l'altra. Folco tentò invano di salvarne anche una sola.
Dopo un po' Valente e Folco si ritrovarono seduti su un tronco marciscente a piangere sulla loro sfortuna. Più tristi della Palude della Tristezza.
E Giannino?
Vennero anche per lui momenti difficili.
Camminava da un giorno e la palude sembrava non finire mai.
Ma quando insidiosi mulinelli di fango gli avvinghiavano le caviglie, si portava la conchiglia all'orecchio.
"Io ho una grande fiducia in te, figliolo. Tu sei tutto quello che ho al mondo. Io sono fiero del tuo coraggio", diceva la voce del padre. E altre volte sussurrava: "Non si va da nessuna parte senza fatica e perseveranza. Se vuoi una vita grande, devi vivere alla grande... Coraggio, figlio mio, i grandi ideali fanno grandi le forze... Scava nella tua anima, troverai energie insospettabili...".
Ogni volta che sentiva la voce del padre, Giannino ripigliava animo. Finché vinse la Palude della Tristezza e si trovò all'imboccatura della Grotta Ferrea, dove splendeva lo Smeraldo Verde. Allora, pieno di gioia, gridò: "Grazie, papà!".
C'erano una volta, in un paese orientale, due bel sorelle. La prima sorella andò sposa al re, la seconda ad un mercante. Con il passare del tempo, però, la mo del re si era fatta sempre più magra, sciupata e triste. La sorella, che viveva con il mercante accanto al palazzo reale, pareva farsi più bella ogni giorno che passava. Il sultano convocò il mercante nel suo palazzo e gli chiese: «Come fai?». «È semplice: nutro mia moglie di lingua». Il sultano diede ordine di preparare quintali di lino di montone, di cammello, di canarino per la dieta della moglie. Ma non successe niente. La donna era sempre più smunta e malinconica. Infuriato, il re decise di far cambio. Mandò la re dal mercante e si prese in moglie la sorella. Nella reggia però, la moglie del mercante, divenuta regina, sfiorì rapidamente. Mentre la sorella, a casa del mercante, in poco tempo ridivenne bella e radiosa. Il segreto? Ogni sera il mercante e sua moglie par si raccontavano storie e cantavano insieme.
Credo che quello che tutti dobbiamo capire è l'amore comincia dalla famiglia. Ogni giorno di più ci rendiamo conto che nel no tempo le sofferenze maggiori hanno origine nel famiglia stessa. Non abbiamo più tempo per guardarci in faccia, per scambiarci un saluto, per dividere insieme un mo di gioia, e meno ancora per essere quello che i nostri figli attendono da noi, quel che il marito at dalla moglie e la moglie attende dal marito. E così apparteniamo ogni giorno meno alle no famiglie e i nostri contatti scambievoli diminuiscono sempre più. Un ricordo personale. Qualche tempo fa arrivò un gruppo numeroso di professori dagli Stati Uniti. Mi chiesero: «Ci dica qualcosa che possa esserci utile». Dissi loro: «Sorridetevi scambievolmente». Credo di averlo detto con eccessiva serietà. Uno di loro mi domandò: «Lei è sposata?». Gli risposi: "Sì, e a volte mi riesce difficile sorrise a Gesù; perché arriva ad essere troppo esigente". Credo che l'amore cominci proprio qui: nella famiglia. (Madre Teresa di Calcutta)
Ogni mattina, il potente e ricchissimo re di Bengodi riceveva l'omaggio dei suoi sudditi. Aveva conquistato tutto il conquistabile e si annoiava un po'.
In mezzo agli altri, puntuale ogni mattina, arrivava anche un silenzioso mendicante, che porgeva al re una mela. Poi, sempre in silenzio, si ritirava.
Il re, abituato a ricevere ben altri regali, con un gesto un po' infastidito, accettava il dono, ma appena il mendicante voltava le spalle cominciava a deriderlo, imitato da tutta la corte.
Il mendicante non si scoraggiava.
Tornava ogni mattina a consegnare nelle mani del re il suo dono. Il re lo prendeva e lo deponeva macchinalmente in una cesta posta accanto al trono. La cesta conteneva tutte le mele portate dal mendicante con gentilezza e pazienza. E ormai straripava.
Un giorno, la scimmia prediletta del re prese uno di quei frutti e gli diede un morso, poi lo gettò sputacchiando ai piedi del re. Il sovrano, sorpreso, vide apparire nel cuore della mela una perla iridescente.
Fece subito aprire tutti i frutti accumulati nella cesta e trovò all'interno di ogni mela una perla.
Meravigliato, il re fece chiamare lo strano mendicante e lo interrogò.
"Ti ho portato questi doni, sire - rispose l'uomo -, per farti comprendere che la vita ti offre ogni mattina un regalo straordinario, che tu dimentichi e butti via, perché sei circondato da troppe ricchezze. Questo regalo è il nuovo giorno che comincia".
Da domani sarò triste, da domani.
Ma oggi sarò contento,
a che serve essere tristi, a che serve.
Perché soffia un vento cattivo.
Perché dovrei dolermi, oggi, del domani.
Forse il domani è buono, forse il domani è chiaro.
Forse domani splenderà ancora il sole.
E non vi sarà ragione di tristezza.
Da domani sarò triste, da domani.
Ma oggi, oggi sarò contento,
e ad ogni amaro giorno dirò,
da domani, sarò triste,
Oggi no.
(Poesia di un ragazzo trovata in un Ghetto nel 1941)
*La principessa
C'era una volta un re che aveva una figlia di grande bellezza e straordinaria intelligenza.
La principessa soffriva però di una misteriosa malattia.
Man mano che cresceva, si indebolivano le sue braccia e le sue gambe, mentre vista e udito si affievolivano.
Molti medici avevano invano tentato di curarla. Un giorno arrivò a corte un vecchio, del quale si diceva che conoscesse il segreto della vita. Tutti i cortigiani si affrettarono a chiedergli di aiutare la principessa malata.
Il vecchio diede alla fanciulla un cestino di vimini, con un coperchio chiuso, e disse: «Prendilo e abbine cura. Ti guarirà».
Piena di gioia e attesa, la principessa aprì il coperchio, ma quello che vide la sbalordì dolorosamente.
Nel cestino giaceva infatti un bambino, devastato dalla malattia, ancor più miserabile e sofferente di lei. La principessa lasciò crescere nel suo cuore la compassione. Nonostante i dolori prese in braccio il bambino e cominciò a curarlo. Passarono i mesi: la principessa non aveva occhi che per il bambino.
Lo nutriva, lo accarezzava, gli sorrideva. Lo vegliava di notte, gli parlava teneramente. Anche se tutto questo le costava una fatica intensa e dolorosa.
Quasi sette anni dopo, accadde qualcosa di incredibile. Un mattino, il bambino cominciò a sorridere e a camminare.
La principessa lo prese in braccio e cominciò a danzare, ridendo e cantando. Leggera e bellissima come non era più da gran tempo. Senza accorgersene era guarita anche lei.
Signore, quando ho fame mandami qualcuno che ha bisogno di cibo;
quando ho sete, mandami qualcuno che ha bisogno di acqua;
quando ho freddo, mandarmi qualcuno da riscaldare;
quando sono nella sofferenza, mandami qualcuno da consolare;
quando la mia croce diviene pesante, dammi la croce di un altro da condividere;
quando sono povero, portami qualcuno che è nel bisogno;
quando non ho tempo, dammi qualcuno da aiutare per un momento;
quando mi sento scoraggiato, mandami qualcuno da incoraggiare;
quando sento il bisogno di essere compreso, dammi qualcuno che ha bisogno della mia comprensione;
quando vorrei che qualcuno si prendesse cura di me, mandami qualcuno di cui prendermi cura;
quando penso a me stesso, rivolgi i miei pensieri ad altri.
Il figlio di un re si innamorò, come succede nelle fiabe, della figlia del fornaio, che era povera ma bella. E la sposò. Per alcuni anni i due sposi vissero in piena armonia e felicità. Ma, alla morte del padre, il principe salì sul trono.
I ministri e i consiglieri si affrettarono a fargli capire che per la salvezza del regno doveva ripudiare la moglie popolana e sposare invece la figlia del potente re confinante, assicurandosi con questo matrimonio pace e prosperità. «Ripudiatela, sire, dopotutto è la figlia di un fornaio». «La sicurezza del trono e dei vostri sudditi viene prima di tutto».
Le insistenze dei ministri si fecero sempre più pressanti e alla fine il giovane re cedette. «Ti devo ripudiare - disse alla moglie -, domani tornerai da tuo padre. Potrai portare via ciò che ti è più caro».
Quella sera mangiarono insieme per l'ultima volta. In silenzio. La donna, apparentemente tranquilla, continuava a versare vino nel bicchiere del re.
Alla fine della cena, il re sprofondò in un sonno pesante. La donna lo avvolse in una coperta e se lo caricò sulle spalle. Il mattino dopo, il re si svegliò nella casa del fornaio.
«Ma, come?», si meravigliò. La moglie gli sorrise.
«Hai detto che potevo portarmi via ciò che avevo di più caro. Ebbene, ciò che ho di più caro sei tu».
La regina Vittoria, potentissima sovrana d'Inghilterra era molto affezionata al marito Alberto di Co Alberto non poteva portare il titolo di re e non aveva un ruolo pubblico. Pur amandosi molto, ogni tanto i due litigavano. Un giorno dopo una discussione il principe Alberto si chiuse nella sua camera. Poco dopo, Vittoria sopraggiunse e bussò.
«Chi è?» domandò Alberto.
«La regina d'Inghilterra!» rispose lei.
La porta restò chiusa e la giovane moglie bussò ancora.
«Chi è?».
«La regina d'Inghilterra!».
Silenzio. E così per parecchie volte di seguito.
Finalmente:
«Chi è?».
«Tua moglie, Alberto» rispose Vittoria. La porta, immediatamente, si spalancò.
Tante volte Dio aveva bussato alla porta degli uomini.
«Chi sei?».
«Sono il tuo Dio».
La porta rimaneva inesorabilmente chiusa. Final
«Chi sei?».
«Sono tuo Padre». La porta si aprì.
Un re convocò a corte tutti i maghi del regno e disse loro: «Vorrei sempre essere d'esempio ai miei sudditi. Apparire forte e saldo, quieto e impassibile nelle vicende della vita. A volte mi succede d'essere triste o depresso, per una vicenda infausta o una sfortuna palese. Altre volte una gioia improvvisa o un grande successo mi mettono in uno stato di anormale eccitazione. Tutto questo non mi piace. Mi fa sentire come un fuscello sballottato dalle onde della sorte. Fatemi un amuleto che mi metta al riparo da questi stati d'animo e sbalzi d'umore, sia quelli tristi che quelli lieti».
Uno dopo l'altro, i maghi rifiutarono. Sapevano fare amuleti di tutti i tipi per gli sprovveduti che si rivolgevano loro, ma non era facile abbindolare un re. Che voleva per di più un amuleto dall'effetto così difficile.
L'ira del re stava per esplodere, quando si fece avanti un vecchio saggio che disse: «Maestà, domani io ti porterò un anello, e ogni volta che lo guarderai, se sarai triste potrai essere lieto, se sarai eccitato potrai calmarti. Basterà infatti che tu legga la frase magica che vi sarà incisa sopra».
L'indomani il vecchio saggio tornò, e nel silenzio generale, poiché tutti erano curiosi di sapere la magica frase, porse un anello al re. Il re lo guardò e lesse la frase incisa sul cerchio d'argento: «Anche questo passerà».
Nella vita dell'uomo,
per ogni cosa c'è il suo momento,
per tutto c'è un'occasione opportuna.
Tempo di nascere, tempo di morire,
tempo di piantare, tempo di sradicare,
tempo di uccidere, tempo di curare,
tempo di demolire, tempo di costruire,
tempo di piangere, tempo di ridere,
tempo di lutto, tempo di baldoria,
tempo di gettar via le pietre,
tempo di raccogliere le pietre,
tempo di abbracciare, tempo di staccarsi,
tempo di cercare, tempo di perdere,
tempo di conservare, tempo di buttar via,
tempo di strappare, tempo di cucire,
tempo di tacere, tempo di parlare,
tempo di amare, tempo di odiare,
tempo di guerra, tempo di pace.
Dio ha dato un senso a tutto,
ha messo ogni cosa al suo posto.
Negli uomini Dio ha messo il desiderio
di conoscere il mistero del mondo.
Anche questo ho capito: tutto ciò che Dio fa
durerà per sempre;
ogni cosa rimane al suo posto.
Dio vuole che noi lo rispettiamo.
Quello che è successo in passato, capita anche oggi;
quello che avverrà in futuro è già capitato in passato.
Tutto passa,
ma a Dio non sfugge niente. (Qoelet 3,1-15)
*L'elemosina
Un giorno di molto tempo fa, in Inghilterra, una donnetta infagottata in un vestito lacero percorreva le stradine di un villaggio, bussando alle porte delle case e chiedendo l'elemosina. Molti le rivolgevano parole offensive, altri incitavano il cane a farla scappare.
Qualcuno le versò in grembo tozzi di pane ammuffito e patate marce. Solo due vecchietti fecero entrare in casa la povera donna.
«Siediti un po' e scaldati», disse il vecchietto, mentre la moglie preparava una scodella di latte caldo e una grossa fetta di pane. Mentre la donna mangiava, i due vecchietti le regalarono qualche parola e un po' di conforto.
Il giorno dopo, in quel villaggio, si verificò un evento straordinario. Un messo reale portò in tutte le case un cartoncino che invitava tutte le famiglie al castello del re.
L'invito provocò un gran trambusto nel villaggio, e nel pomeriggio tutte le famiglie, agghindate con gli abiti della festa, arrivarono al castello.
Furono introdotti in una imponente sala da pranzo e ad ognuno fu assegnato un posto.
Quando tutti furono seduti, i camerieri cominciarono a servire le portate. Immediatamente si alzarono dei borbottii di disappunto e di collera.
I solerti camerieri infatti rovesciavano nei piatti bucce di patata, pietre, tozzi di pane ammuffito. Solo nei piatti dei due vecchietti, seduti in un angolino, venivano deposti con garbo cibi raffinati e pietanze squisite.
Improvvisamente entrò nella sala la donnetta dai vestiti stracciati. Tutti ammutolirono. «Oggi - disse la donna - avete trovato esattamente ciò che mi avete offerto ieri».
Si tolse gli abiti malandati. Sotto indossava un vestito dorato. Era la Regina.
Un riccone arrivò in Paradiso. Per prima cosa fece un giro per il mercato e con sorpresa vide che le merci erano vendute a prezzi molto bassi.
Immediatamente mise mano al portafoglio e cominciò a ordinare le cose più belle che vedeva.
Al momento di pagare porse all'angelo, che faceva da commesso, una manciata di banconote di grosso taglio. L'angelo sorrise e disse: "Mi dispiace, ma questo denaro non ha alcun valore".
"Come?", si stupì il riccone.
"Qui vale soltanto il denaro che sulla terra è stato donato", rispose l'angelo.
Oggi, non dimenticare il tuo capitale per il Paradiso.
C'era una volta, tanti secoli fa, una città famosa. Sorgeva in una prospera vallata e, siccome i suoi abitanti erano decisi e laboriosi, in poco tempo crebbe enormemente.
I pellegrini la vedevano da lontano e rimanevano ammirati e abbagliati dallo splendore dei suoi marmi e dei suoi bronzi dorati. Era insomma una città felice nella quale tutti vivevano in pace.
Ma un brutto giorno, i suoi abitanti decisero di eleggere un re.
Le trombe d'oro degli araldi li riunirono tutti davanti al Municipio. Non mancava nessuno. Poveri e ricchi, giovani e vecchi si guardavano in faccia e parlottavano a bassa voce.
Lo squillo argentino di una tromba impose il silenzio a tutta l'assemblea. Si fece avanti allora un tipo basso e grasso, vestito superbamente. Era l'uomo più ricco della città.
Alzò la mano carica di anelli scintillanti e proclamò: "Cittadini! Noi siamo già immensamente ricchi. Non ci manca il denaro. Il nostro re deve essere un uomo nobile, un conte, un marchese, un principe, perché tutti lo rispettino per il suo alto lignaggio".
"No! Vattene! Fatelo tacere! Buuuu!". I meno ricchi della città cominciarono una gazzarra indescrivibile. "Vogliamo come re un uomo ricco e generoso che ponga rimedio ai nostri problemi!".
Nello stesso tempo, i soldati issarono sulle loro spalle un gigante muscoloso e gridarono, agitando minacciosamente le picche: "Questo sarà il nostro re! Il più forte!".
Nella confusione generale, nessuno capiva più niente.
Da tutte le parti scoppiavano grida, minacce, applausi, armi che s'incrociavano. I parapiglia si moltiplicavano e i contusi erano già decine.
Suonò di nuovo la tromba. Poco a poco, la moltitudine si acquietò. Un anziano, sereno e prudente, salì sul gradino più alto e disse: "Amici, non commettiamo la pazzia di batterci per un re che non esiste ancora. Chiamiamo un bambino innocente e sia lui ad eleggere un re tra di noi".
Presero per mano un bambino e lo condussero davanti a tutti.
L'anziano gli chiese: "Chi vuoi che sia il re di questa città così grande?".
Il bambinetto li guardò tutti, si succhiò il pollice e poi rispose: "I re sono brutti. Io non voglio un re. Voglio che sia una regina: la mia mamma".
Le mamme al governo. È un'idea magnifica. Il mondo sarebbe certamente più pulito, si direbbero meno parolacce, tutti darebbero la mano ad uno più grande prima di attraversare la strada...
Dio l'ha pensata allo stesso modo. E ha fatto Maria.
*Quattro principi reali
Quattro principi reali erano alla ricerca di una specializzazione in cui non avessero nessuno alla pari. Si dissero l’un l’altro: “Perlustriamo la terra e impariamo la scienza massima”. Così, dopo aver concordato un luogo per un appuntamento futuro, i quattro fratelli si mossero, ciascuno in una direzione diversa.
Il tempo passò. Dopo un anno, un mese e un giorno, i quattro principi si incontrarono nel luogo stabilito e si chiesero l’un l’altro cosa avessero imparato. “Io ho imparato una scienza”, disse il primo, “che mi rende possibile, anche se ho solo un pezzetto d’osso di un essere vivente, di creare subito la carne che lo ricopre”.
“Io”, disse il secondo, “so come far crescere la pelle di quell’ essere e anche il pelo, se quell’ osso è ricoperto di carne”.
Il terzo disse: “Io sono capace di creare le membra, se ho la carne, la pelle e la pelliccia”. “E io”, concluse il quarto, “so come dar vita a quella creatura se la sua forma è completa di membra”. A questo punto, i quattro principi andarono nella giungla per trovare un pezzo d’osso che dimostrasse la loro specialità.
Non fu difficile. Fatti pochi passi, trovarono un osso e lo raccolsero. Non si chiesero a che razza di animale fosse appartenuto.
Erano così presi dalla loro scienza che non ci pensarono neppure. Uno aggiunse carne all’osso, il secondo creò la pelle e il pelo, il terzo lo completò con membra adatte e il quarto diede vita ad … un leone.
Scuotendo la folta criniera, la belva si levò con fauci minacciose, denti aguzzi e mascelle spietate e balzò sui suoi creatori.
Li uccise tutti e svanì soddisfatta nella giungla.
L’uomo ha dimostrato di possedere un enorme potere creativo. Ma questo potere contiene il potenziale dell’autodistruzione. Vasti e nuovi complessi industriali permettono all’uomo di produrre in un’ora ciò per cui, nel passato, doveva faticare anni e anni, ma le stesse industrie hanno alterato l’equilibrio ecologico e attraverso l’aria, il rumore e l’inquinamento hanno contaminato il suo ambiente. Egli viaggia in macchina, guarda la televisione, decide con il computer, ma ha perduto la capacità di dominare gli strumenti che usa. Ha una enorme abbondanza di comodità materiali, ma brancola in cerca di direzione e chiede significati e obiettivi. Sa benissimo che se sbaglia le scelte, la sua scienza può distruggerlo. Nello stesso tempo sente che ha messo in moto qualcosa che gli sfugge. E se non riesce a dominarlo, sarà solo colpa sua. Afferma un saggio proverbio cinese: “Non è il vino che ubriaca l’uomo. Ě l’uomo che si ubriaca”.
Un giorno, un re, per punire suo figlio lo mandò in esilio in un paese lontano. Il principe soffrì la fame e il freddo, perse la speranza di ottenere il perdono reale.
Passarono gli anni.
Un giorno, il re inviò al figlio un ambasciatore con l'ordine di esaudire tutti i suoi desideri, tutte le sue aspirazioni.
L'ambasciatore lo disse al principe, che lo guardò stupito e rispose soltanto: «Dammi un pezzo di pane e un cappotto caldo».
Aveva completamente dimenticato che era un principe e che poteva ritornare nel palazzo di suo padre a vivere da re.
Non è questa la triste storia di tanti nostri contemporanei che hanno dimenticato di essere Figli di Dio?
Il Salmo 16 (15) ci insegna una bellissima preghiera:
«Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Ho detto al Signore: sei tu il mio Dio:
fuori di te non ho altro bene.
Un tempo adoravo gli dèi del paese,
confidavo nel loro potere.
Ora pensino altri a fare nuovi idoli,
non offrirò più a loro
il sangue dei sacrifici,
con le mie labbra non dirò più
il loro nome.
Sei tu, Signore, la mia eredità».
*Una lettera d’Amore
Per il suo compleanno, una principessa ricevette dal fidanzato un pesante pacchetto dall’insolita forma tondeggiante. Impaziente per la curiosità, lo aprì e trovò… una palla di cannone.
Delusa e furiosa, scagliò a terra il nero proiettile di bronzo.
Cadendo, l’involucro esteriore della palla si aprì e apparve una palla più piccola d’argento. La principessa la raccolse subito.
Rigirandola fra le mani, fece una leggera pressione sulla sua superficie. La sfera d’argento si aprì a sua volta e apparve un astuccio d’oro.
Questa volta la principessa aprì l’astuccio con estrema facilità. All’interno, su una morbida coltre di velluto nero, spiccava un magnifico anello, tempestato di splendidi brillanti che facevano corona a due semplici parole: TI AMO.
Molta gente pensa: la Bibbia non mi attira. Contiene troppe pagine austere e incomprensibili. Ma chi fa lo sforzo di rompere il primo “involucro”, con attenzione e preghiera, scopre ogni volta nuove e sorprendenti bellezze. E soprattutto verrà presto colpito dalla chiarezza del messaggio divino inciso nella Bibbia: DIO TI AMA.
Una volta un re, convocò tutti i maghi, i sapienti e i sacerdoti del suo regno. Li minacciò dei castighi più terribili se non gli mostravano Dio. Quei pove si disperavano e si strappavano i capelli senza saper cosa fare, quando arrivò un pastore che annunciò a tutti di essere in grado di risolvere il problema.
Si affrettarono a presentarlo al re. Il pastore allo condusse il sovrano su un terrazzo e gli indicò il sole.
«Guardalo!», disse.
Dopo un istante, il re abbassò gli occhi, gridando «Vuoi accecarmi?».
«Mio Signore», disse il pastore, «il sole è solo una piccola cosa del Creatore, neanche una scintilla del suo splendore... come puoi pensare di posare gli oc su Lui in persona?».
Ogni giorno il discepolo poneva la stessa domanda «Come posso trovare Dio?». E ogni giorno ripeteva la stessa misteriosa risposta: «Devi desiderarlo».
«Ma io lo desidero con tutto il mio cuore, no? Al perché non lo trovo?».
Un giorno, il maestro si stava bagnando nel fiume con il discepolo. Spinse la testa del giovane sotto e ve la tenne mentre il poveretto si dibatteva disperatamente per liberarsi.
Il giorno dopo fu il maestro a iniziare la conversazione «Perché ti dibattevi in quel modo quando ti tenevo la testa sott'acqua?».
«Perché cercavo disperatamente aria». «Quando ti sarà data la grazia di cercare disperatamente Dio come cercavi l'aria, lo avrai trovato».